Quand’ ero piccolo avevo l’ abitudine di mettermi a piangere disperatamente quando guardavo l’ ultima puntata di uno dei miei cartoni animati preferiti (vale a dire qualsiasi). Erano gli anni precedenti al videoregistratore, che permettevano di fissare su nastro le gesta dei miei amici bidimensionali. Già, amici; li ho sempre considerati tali. Erano i compagni dei pomeriggi dopo la scuola e della sera, dei sabati pomeriggi piovosi e delle domeniche. Erano fedeli; se accendevi la tv ad una data ora, sapevi che li avresti trovati, che non avrebbero accampato scuse improbabili per evitarti. Magari non erano quelli che ti aspettavi di trovare, ma qualcuno c’ era sempre. E con un piccolo sforzo immaginativo potevano rimanere con te anche dopo aver spento il televisore. Sotto forma di giocattoli, o nella fantasia; allora potevi combattere al loro fianco contro i crudeli invasori venuti da vattelapesca per conquistare il mondo. Col tempo, ovviamente, la disperazione per la naturale conclusione di una serie si è attenuata. Ma non è mai sparita del tutto. Un po’ di magone, quando si concludono le avventure dei miei beniamini, rimane sempre. Specie se la conclusione non è affatto “naturale”, ma dovuta ad altri motivi. E se avviene in un contesto schizofrenico come quello italiota. Da questo punto di vista, questi mesi sono stati un’ ecatombe. Prima la chiusura delle serie Ultimate; hanno cominciato gli X men, seguiti a ruota dai Fantastici Quattro. A breve si uniranno Spider Man e gli Ultimates. Trattandosi di una cosa annunciata (e necessaria; l’ universo Ultimate ha bisogno di un bel rilancio) non ci sono rimasto granchè male. Non troppo. Una conclusione naturale. Come quella, imminente, di Strangers in Paradise. Diverso il discorso per John Doe e Phantom. Uno si è concluso con ventidue numeri ventidue di anticipo (e forse due di troppo, ma questa è una questione che interessa prettamente il narratore dentro di me e non il nerd); il secondo, invece, ha interrotto la sua corsa col numero sei. Così, di punto in bianco.Scarse vendite, un prezzo di copertina forse troppo alto, una scelta editoriale coraggiosa ma irrealistica. Proporre un’ icona del genere supereroistico in bianco e nero in un paese dove vengono considerati capolavori del fumetto inuyasha, dragonball, one piece od altro manga per decerebrati (con buona pace di Will Eisner ed Art Spiegelman e Hugo Pratt) a scelta è quasi un suicidio. Specie in un momento economico come questo. Ci hanno provato, gli è andata male. Molti non si accorgeranno nemmeno della sparizione dell’Ombra che Cammina dagli scaffali. A me rimangono tutti i sei numeri e la sensazione di aver perso un amico capace di darmi un’ oretta di divertimento con le sue avventure ingenue, retoriche e prolisse, ma affascinanti nella loro esotica immediatezza. Posso sempre rileggerle, questo sì. Ma non sono mai stato un ri- lettore. Vuoi per questione di tempo, vuoi perchè la sensazione di già visto non è mai gratificante del tutto. Mi piace vedere il personaggio crescere e maturare, vivere ogni volta avventure diverse che possono cambiarlo ( o no, ma questo riguarda di nuovo il narratore e non il nerd affamato di stabilità che c’ è in me). Specie per un personaggio che aveva ancora tanto da dire, e non ha potuto farlo a causa della logica folle del mercato. La stessa che ogni mese ci fa ritrovare sugli scaffali l’ ennesima ristampa di dragon ball o dei cavalieri dello zodiaco. Con nuove tavole a colori. Che raccontano sempre la stessa storia. Non che non siano belli, capiamoci. Anche io apprezzo queste due serie. Ma se anzichè riproporle fino alla nausea le stesse storie in venti vesti grafiche diverse si usassero quei soldi per promuovere qualcosa di nuovo, magari si uscirebbe da un certa mentalità;si comincerebbe a capire che “il fumetto più bello del mondo” è altro, non certo inuyasha o ranma. Serie carine, ma che avevano già detto tutto al terzo numero. E sono proseguiti per altri cinquanta e passa. Perchè vendevano. Ormai tutto è merce, si sa. Ma spero concordiate con me che vedere la creatività e la voglia di raccontare e coinvolgere ridotta ad una serie di cifre su un bilancio mensile è avvilente. Ecco, forse è questo che fa veramente tristezza. Vedere un amico, per quanto di carta, sacrificato sull’ altare del profitto. Sì, è decisamente triste...
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